di Giulia Molli
Ha saputo catturare e mantenere viva l’attenzione del pubblico, durante tutta la durata del suo intervento, Davide Mattiello la sera del 23 Aprile, in occasione degli eventi organizzati a Villadossola per la Festa della Liberazione.
L’onorevole, membro della Commissione Antimafia, invitato da Libera, ha voluto subito mettere in relazione Libera e il movimento partigiano e l’ha fatto raccontando la storia di Placido Rizzotto. Placido Rizzotto, di origine siciliana, fu partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale; finito il conflitto tornò nella terra natìa dove, da convinto sindacalista, si impegnò in favore del movimento contadino e continuò la sua lotta nonostante le intimidazioni di Cosa Nostra, che finì con l’ucciderlo nel 1948. Per Placido Rizzotto la battaglia contro la mafia fu naturale continuazione della Resistenza, perché fu ispirata dalla stessa passione per la libertà e i diritti.
La lotta partigiana e quella di Libera per la Legalità e l’Antimafia hanno infatti fronti comuni e valori condivisi e secondo Mattiello non devono mai “essere chiuse in un museo come capitoli già scritti”. In effetti gli episodi contro cui battersi continuano ad avvenire, come il recente attacco terroristico in Utoya, contro un gruppo di ragazzi “europeisti e socialisti” che stavano frequentando un campo di formazione politica. L’attentatore, Anders Breivik, ha ammesso di aver agito in nome di ideologie di destra e di una presunta superiorità razziale. L’affermazione, già in sè violenta, è apparsa più grave quando ha ribadito di aver agito in piena consapevolezza, respingendo la possibilità che fosse richiesta per lui l’infermità mentale.
Se esistono ancora i propugnatori di ideologie razziste, non mancano neppure forme di quotidiana illegalità che calpestano i valori della democrazia, per esempio il lavoro, su cui si basa la nostra Repubblica, come recita l’articolo 1 della Costituzione. Per Mattiello “antimafia” vuol dire anche occuparsi di lavoro, che dovrebbe essere occasione di emancipazione e non di sfruttamento. Da membro della Commissione Antimafia, ha infatti voluto da subito dare voce ai sindacalisti e ai lavoratori delle campagne che denunciavano il caporalato che si stava imponendo nelle loro terre.
Antimafia vuol dire anche lottare contro la cultura mafiosa; Mattiello in proposito ha citato Peppino Impastato, che ha avuto il coraggio di rompere con la famiglia, appartenente a una cosca mafiosa, e l’ha denunciata. Il suo gesto è stato tragico, perché ha implicato la fine di qualsiasi rapporto con i consanguinei, ma allo stesso tempo eroico: è un esempio di chi non vuole sottomettersi alla logica mafiosa, ma vuole “resisterle”. Peppino Impastato fu assassinato dalla mafia, proprio il giorno in cui avrebbe dovuto tenere il suo comizio elettorale. Aveva capito come bisognava combattere la mafia: dall’interno delle istituzioni della nostra Repubblica democratica, che, ha sottolineato Mattiello, ci sono state consegnate da chi ha lottato per la Resistenza e che devono essere difese.
Purtroppo, il disinteresse generale nei confronti della politica, è proprio uno dei maggiori punti di forza della mafia, che così può insediarsi senza problemi nelle istituzioni statali, perché “comandare è meglio che fottere”, come recita un proverbio ben noto ai mafiosi.
Antimafia diventa così anche schierarsi, “togliere le mani dalle tasche”, correre il rischio di “sporcarsele”, secondo le parole di Don Milani, prendendo una posizione per non vivere nell’indifferenza.
Ma fin dove bisogna “sporcarsi le mani”? Per riuscire a combattere la mafia fino in fondo bisogna organizzare una forza davvero “resistente” che non si scoraggi mai. Secondo Mattiello, non c’è un limite oltre al quale non bisogna “lottare”, tutto dipende dalle motivazioni che uno ha per farlo. Ad esempio, molti mafiosi, quando vengono arrestati, mantengono il silenzio, non rivelano alcuna informazione. Sono “resilienti”, come dice Mattiello, cioè sono come quei materiali che attutiscono un colpo e ritornano alla forma iniziale, niente li trasforma perché si sentono parte di un progetto politico che travalica la loro esistenza, restano in gioco solo perché motivati dall’avidità di potere e ricchezza.
Amore per la democrazia e per il bene comune è invece l’ideale che traspare dalle lettere che molti Partigiani hanno scritto poco prima della loro morte. Ed è per questo amore che i partigiani si sono “sporcati” le mani.
Con parole appassionate Mattiello ha richiamato tutti all’impegno: «Tutto dipende da quanto ami le persone e i motivi che ti stanno spingendo a “togliere le mani dalle tasche”. Solo l’amore ti dà una misura di quanto sei in grado di sopportare, o hai l’amore o sei finito. Dove vai se non sei innamorato delle idee in cui credi?»
È questa la domanda che ha lasciato volutamente senza risposta, come invito alla riflessione per ognuno di noi.