Un’intensa settimana di udienze ha condotto alla conclusione del primo grado del processo Lea Garofalo. Dalla requisitoria del pm, passando per le richieste della parti civili e le arringhe della difesa, per giungere alla proclamazione della sentenza.
Tatangelo, il pm, si esprime con durezza. La collaboratrice di giustizia è stata sciolta nell’acido, la sua storia di 56 chili viene annullata in altrettanti litri di acido. Dopo essere stata sequestrata, legata e torturata nel furgone con cui viene portata in periferia, interrogata e uccisa con un colpo di pistola alla testa in un capannone. Nella notte tra il 24 e il 25 novembre 2009, a Milano.
A volere giustizia resta Denise, la figlia diciannovenne, ora testimone di giustizia sotto programma di protezione. A volere giustizia, contrapponendosi a dei vigliacchi che si sono messi in sei contro una donna. Tra questi, suo padre – ed ex compagno di Lea – Carlo Cosco, a due suoi zii Vito e Giuseppe e al suo ex fidanzato Carmine Venturino.
Per due giorni la difesa smonta la tesi dell’accusa; si mostra compatta, evidenzia la carenza di prove, prima fra tutte la certezza che Lea sia realmente morta. A loro dire, si è creata una stratificazione di causali secondo cui se «Lea non è in vita, è scomparsa, è morta». Ma pare manchino troppi indizi per poterlo dire con certezza e Lea parlasse da tempo di voler andare in Australia, a rifarsi una vita.
Questo consente loro di seguire la strada dell’allontanamento spontaneo, rafforzato dal pensiero di Denise di continuare gli studi a Milano.
A sostegno della tesi, l’assenza dell’arma, la completa irreperibilità di tracce di acido e l’analisi tabulati telefonici.
Il pm, poi, è accusato di aver appositamente aggiunto l’interrogatorio nella ricostruzione dei fatti in quanto, se non ci fosse stato, sarebbe venuto a mancare il movente dell’omicidio.
Concludono, chiedendo l’assoluzione degli imputati in quanto il fatto non sussiste e, in subordinazione, per non aver commesso il fatto.
È il 30 marzo, a metà pomeriggio, quando la Corte si ritira, prevedendo la lettura della sentenza tra le 19.30 e le 20.
Racimolata l’ultima dose di speranza, parenti e amici degli imputati si radunano di fronte alle porte della prima sezione della Corte d’Assise.
Giungono anche alcuni rappresentanti della società civile, sul volto un’altra emozione. Una quindicina di ragazzi del presidio di Libera Lea Garofalo, don Luigi Ciotti, Nando dalla Chiesa, Giulio Cavalli, Lorenzo Frigerio.
La sentenza tarda ad arrivare, è poco prima delle 9 quando la Corte rientra e viene concessa l’entrata al pubblico, delimitato in uno cospicuo spazio sul fondo.
La voce del presidente Anna Introini rompe il silenzio carico di tensione, dichiarando la condanna all’ergastolo per tutti i sei imputati con due anni di isolamento per Carlo e Vito, uno per gli altri.
Tra il pubblico le reazioni contrastanti di chi tira un sospiro di sollievo, sorridendo, e di chi lascia scorrere le lacrime in silenzio; nessuno riesce a guardare verso la cella dove i condannati fissano il vuoto, schiacciati dal peso della loro pena.
Forse, speravano che sulla giustizia vincesse l’umanità che, loro per primi, non hanno avuto.
Don Luigi Ciotti era al fianco di Denise durante la lettura della sentenza e a lei dedica le sue parole, alla conclusione. «Credo che nella storia del nostro Paese, – la voce rotta dall’emozione, provata dalla situazione – dobbiamo inchinarci di fronte a una ragazza giovane che ha rotto i cerchi mafiosi, che ha trovato la forza e il coraggio di rompere l’omertà. È stata la sua più grande ferita e il suo più grande dolore dovere cercare la verità fino in fondo, una parte c’è, ma anche la giustizia. Glielo deve a sua mamma…e l’ha fatto per sua mamma».