di Isabella Caporossi
Martedì 10 marzo la Casa Don Gianni di Domodossola ha avuto ospite la direttrice di Narcomafie Manuela Mareso, che ha presentato il suo libro-intervista “Loro mi cercano ancora”. Il libro racconta la vicenda della testimone di giustizia Maria Stefanelli, sorella di Antonio Stefanelli e figliastra dell’omonimo Antonino, entrambi esponenti della cosca ‘ndranghetista ligure. Si tratta di una lucida analisi dell’esperienza che la moglie di un boss si è trovata ad affrontare quotidianamente per anni e dei motivi che l’hanno spinta a parlarne.
Maria Stefanelli nasce a Oppido Mamertina nel 1965. La sua vita è stata sempre molto difficile e segnata da esperienze terribili. Fin da quando lei aveva 12 ha vissuto in un contesto di abusi con il costante desiderio di fuggire e abbandonare la famiglia, trasferitasi a Varazze dopo la morte del padre. Ma i tentativi sono sempre stati vani. Diventata più grande, i suoi fratelli le imposero un matrimonio conveniente per la sua famiglia: dovrà diventare la moglie di Francesco “Ciccio” Marando, allora in carcere, appartenente a una cosca che operava nel torinese. Della situazione se ne avvantaggerà anche Maria che, pur consapevole delle motivazioni che spingevano i fratelli a desiderare quella parentela, in questo matrimonio vedeva l’opportunità di abbandonare finalmente la casa materna.
In realtà la situazione dopo il matrimonio non migliorò affatto: ora doveva rispondere ai doveri di moglie del boss, sottostando agli ordini della famiglia. Infatti Marando, dal carcere, la usava come tramite per i narcotraffici all’esterno. In seguito Maria e il marito hanno una figlia, che sarà il suo unico motivo per andare avanti. Nel frattempo, il marito la userà anche per fingersi depresso durante i loro incontri in carcere, con lo scopo di farsi dichiarare infermo mentale e ottenere il trasferimento in un ospedale psichiatrico, dal quale sarà per lui più facile evadere, soprattutto grazie all’aiuto di Maria.
Quando nel 1996 Maria, seguendo un telegiornale, apprende la notizia del ritrovamento di un corpo carbonizzato nel bosco, scopre che l’uomo porta al dito un anello con la stessa incisione che aveva quello del marito. Francesco Marando è stato ucciso in un agguato. Questa notizia non può che suscitare in Maria un enorme senso di liberazione. Dopo la morte del marito Maria torna dalla sua famiglia, a Varazze. Il marito le ha lasciato solo debiti e quindi lei si vede costretta a lavorare persino nei cantieri pur di permettere alla figlia di crescere con dignità. Negli anni successivi moriranno anche suo fratello e il suo patrigno.
Maria a quel punto prende la decisione più difficile della sua vita: testimoniare. Crede suo dovere far conoscere quali siano le condizioni di estrema sottomissione in cui è costretta a vivere una donna di ‘ndrangheta. Questo libro va inteso anche come un doveroso riconoscimento, oltre che ricordo, per quelle donne come Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola e molte altre, purtroppo sconosciute, che si sono trovate a dover subire la sua stessa condizione.
La sua presa di posizione le procurerà una terribile accusa di infamia soprattutto da parte della sua famiglia. Maria sa di aver fatto la cosa giusta anche se pagherà la sua scelta a caro prezzo.
La sua testimonianza risulterà decisiva sei anni dopo, nel maxiprocesso contro la ‘ndrangheta in Piemonte nell’ambito dell’operazione Minotauro. Stava faticosamente provando a rifarsi una vita.
Lei e sua figlia da molto tempo ormai sono costrette a vivere in solitudine e con nuove identità: lontane da casa e dal mondo che lei ha deciso di non volere per sua figlia.
Lei sa che la sua storia non è ancora finita e a Manuela Mareso dice: «Loro mi danno la caccia tuttora. Coi Marando non si scherza».