di Valentina Aiello
«E voglio dunque dirLe grazie per quello che fa per noi e per tutti gli altri» esordisce il sindaco di Pettenasco Mauro Romagnoli, presentando al pubblico l’ospite della serata: Don Luigi Ciotti, presidente di Libera e del Gruppo Abele. L’evento, chiamato “Libera.. Dignità” è organizzato nell’ambito del “Festival della Dignità Umana”, che tratta appunto questo delicato tema dal 12 al 29 settembre, nelle province di Novara e Verbano Cusio Ossola. La sera del 21 settembre, presso l’hotel “L’approdo” di Pettenasco, è stata la volta di confrontarsi, attraverso la guida di Don Giannino Piana, con Don “Gigi” Ciotti, un “prete di strada” per eccellenza, ponendosi l’interrogativo: «Che cos’è, effettivamente, la dignità?».
«La dignità -comincia Don Luigi- è la dimensione più ampia e più pura dell’umanità. È qualcosa di inestirpabile, perché non riguarda l’avere, ma l’essere».
E la prima mossa per rispettarla, questa dignità, è quella di riconoscere la qualità e l’unicità della vita, attraverso il solo mezzo caratteristico: il nome. Diceva Pietro Ingrao, in un discorso che è rimasto impresso nella memoria dell’allora giovanissimo Don Luigi: «Noi tutti avremo vinto quando i senza volti, i senza nome, “gli indecisi sul nome” saranno riconosciuti per la loro dignità e completezza umana». La memoria dei nomi, soprattutto delle persone che non ci sono più, è il primo passo per “evitare di ucciderli una seconda volta”, con l’omertà e l’indifferenza. Come per la memoria delle vittime di mafia, delle vittime del terrorismo, dei morti sul lavoro: tutti nomi che spesso ci dimentichiamo di ricordare, ma che mettiamo in una determinata categoria, attribuendo loro un’etichetta ed evitando di farci coinvolgere emotivamente. «Un esempio -continua Ciotti- sono le terribili storie delle vittime innocenti delle mafie e dei loro familiari».
Come la storia di Rita Atria: una giovane ragazza che, a soli 17 anni, denunciò presso il giudice Borsellino tutti i crimini che avvenivano all’interno della sua stessa famiglia, profondamente mafiosa. Per lei il giudice divenne quasi un secondo padre tanto che, sette giorni dopo l’attentato di via d’Amelio, Rita, alla stessa ora, a Roma, si gettò dal balcone del suo appartamento al settimo piano. Il giorno dopo i suoi funerali, avvenuti con pochissimi partecipanti, la lapide con il suo nome era già stata spezzata a colpi di martello dalla sua stessa madre. E così, per altri venti lunghi anni, Rita venne privata del suo nome, dell’unica cosa che era rimasta di lei. Solo quest’estate, in occasione del IV Raduno dei giovani di Libera, è stata riposizionata sulla sua tomba una lapide per mano di sua cognata Piera Aiello che, come lei, è stata testimone di giustizia.
«Io sono qui – dichiara don Luigi – perché c’è un “noi”: diffidate dell’io, di chi “ha capito tutto”, perché siamo tutti piccoli piccoli. Ma, nella nostra piccolezza, non dobbiamo dimenticare il nostro primo dovere, che è quello di “impegnare la nostra libertà per liberare chi libero non è”. Perché chi è povero, chi non sa leggere, chi non ha lavoro, non è libero». Dobbiamo imparare il coraggio di decidere da che parte stare.
«Ma soprattutto – ricorda Ciotti – dobbiamo riprenderci il controllo delle parole. Ce le stanno rubando: chi è che oggigiorno non parla di giustizia, di legalità, di lavoro. E quelli che le sventolano, sono gli stessi che le calpestano tutti i giorni, queste parole. Riprendiamoci il concetto di lavoro, di lavoro pulito, di lavoro come condizione di libertà e dignità. Il lavoro come “ponte tra l’Io e il Noi”. E lavoriamo, tutti insieme, per costruire una società che ci renda uguali come cittadini e diversi come persone».