Schiave del nuovo millennio

Tratto dall’Osservatorio di Libera Novara

Galliate, a metà di una giornata ventosa. Tre ragazze, nigeriane, occupano l’inizio di una selvaggia stradina che, dalla trafficata carreggiata che da Galliate porta al Ticino e alla Lombardia, si inoltra nel parco. Il tempo di fare inversione di marcia e tornare indietro; due di loro sono sparite, lasciando una sedia di plastica sporca e un secchio capovolto.
V. ha 25 anni al massimo, è seduta ad ascoltare la musica. Veste maglia e pantaloni larghi, una spalla è scoperta dall’ampia scollatura. C., mediatrice nigeriana, è la prima a scendere dalla macchina per parlare con la sua connazionale, ma L., operatrice italiana, non resiste molto e subito scende anche lei: «ma dai, neanche un sorriso» commenta slacciando la cintura di sicurezza. E le bastano solo pochi istanti per far nascere quel sorriso, bellissimo.

Poche parole, qualche sguardo intenso: un intervento-tipo effettuato dall’associazione Liberazione e Speranza di Novara. Da 13 anni si occupa di contrastare il fenomeno della prostituzione attraverso l’attuazione di percorsi di recupero e reinserimento delle ragazze vittime di tratta nella società e di attività di informazione destinate alle scuole e alla cittadinanza.
È il lavoro di L., il lavoro di C. e di altre persone che si dedicano notte e giorno a questo impegno. Dopo l’uscita, Laura parla per un’ora: spiega l’associazione e il suo operato, delinea le caratteristiche del drammatico fenomeno e, nel mentre, si racconta.

Riappropriazione delle parole e sensibilizzazione dell’opinione pubblica riguardo il tema, come «quando chiamano le ragazze “prostitute” a me viene un po’ il nervoso perché sono “prostituite”; cioè costrette, sono schiave, quindi sono vittime di tratta; queste sono le schiave del nuovo millennio».
E, «chiaramente, facciamo le uscite per contattarle ma molte vengono qua da sole. Ormai sono tredici anni che esiste questa associazione, le ragazze che abbiamo aiutato dieci anni fa o nove o otto, sono loro che le accompagnano. Magari vedono le ragazze per la strada e dicono: “sister vieni qua, in quell’ufficio c’è qualcuno che ti può aiutare”. Oppure ci chiamano pronto soccorso e ospedali che vedono una situazione un po’ particolare di una incinta, molto giovane, nigeriana. Ci conoscono e ci chiamano».
Entrano nel programma di reinserimento protezione sociale e iniziano il loro percorso dalla casa di fuga, passando per la casa di prima accoglienza e la casa di seconda, concludendo nella casa di semi autonomia. In questo periodo cercano, innanzitutto, di sostituire la vita sregolata di prima con dei tempi normali, dormendo la notte, mangiando e lavandosi regolarmente. Poi denunciano, raccontano quanto è loro successo, perché «non è solo finalizzato alla denuncia, ma è anche terapeutico. Loro possono raccontare tutto quello che è successo, se se lo tengono dentro stanno male. A noi serve per valutare se la ragazza ha bisogno di uno psicologo, o uno psichiatra, o di qualunque altra cosa». Volge verso il termine permettendo alla ragazza di acquisire autonomia, ottenendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari, nonostante debbano sottostare a tempi terribilmente lunghi. Senza lavorare, senza avere la carta d’identità, senza assistenza sanitaria: senza poter guardare in faccia al futuro, «è come se non esistesse veramente in questo stato. Però lei è qua che aspetta ed è stressantissimo, è terribile, perché ci sono molti problemi burocratici, a volte l’attesa del documento può durare anche uno o due anni».

Ma di quali paesi sono le ragazze vittime di tratta nel novarese? Nigeria ed est Europa, Romania e Albania in particolare.
Le nigeriane sono la maggior parte; sono reclutate da conoscenti o parenti in Nigeria con la promessa di un lavoro onesto, come babysitter o parrucchiera. Le più fortunate ottengono dai trafficanti dei documenti falsi e raggiungono l’Italia in aereo, passando per Parigi; in altri casi, invece, «i trafficanti fanno fare il deserto a piedi, a volte devono bere la loro pipì per sopravvivere, spesso vengono stuprate nel deserto. Già solo il viaggio è un inferno». Alcune le fanno prostituire per un po’ in Libia, «a volte ci mettono un anno, da casa ad arrivare qua». In Italia, vengono affidate dall’organizzazione criminale a una madame, una sfruttatrice che si occupa di loro chiudendole in due o tre in una stanza; a chiave, perché non possano uscire.
Devono pagare l’affitto della “casa”, le bollette e il joint, «che è la postazione, il posto dove siamo andati oggi, di terra, che costa dalle duecento ai trecento euro al mese di affitto, quindi c’è un giro di soldi allucinante». Si aggiunge il costo del viaggio fino all’Italia: da un costo reale di circa diecimila euro sono costrette a restituire fino a centomila euro. E una prestazione costa dai 10 ai 30 euro, per la durata di un quarto d’ora «perché devi fare più clienti possibile. Difficile che stiano più di un quarto d’ora. Quindi poi dimmi tu come possono quelle ragazze pagare il debito».
Subiscono violenze, fisiche e psicologiche, «la madame le picchia, le fa stuprare, le fa fare il rito voodoo se cercano di ribellarsi, quindi vivono nel terrore, nella paura, anche di ripercussioni sulla famiglia». Per tenerle legate e per piegare la loro volontà, il rito voodoo, il patto di sangue, è il condizionamento psicologico più forte di qualsiasi altra cosa. L. spiega, dando voce a un’immaginaria ragazza, «Se spezzano il patto di sangue con la madame succederà davvero tutto quello che lei mi diceva che succederà: morirò, impazzirò, morirà mia madre, mia sorella».
Le ragazze bianche, invece, sono sempre sfruttate da uomini, spesso sono dei fidanzati che le portano via dal paese di origine proponendo loro una vacanza. Le portano qua e, dalla mattina alla sera, loro diventano dei massacratori, degli stupratori, dei torturatori. Passano poche ore tra l’arrivo nel “paese della vacanza” e la costrizione alla strada, tra violenze e torture. Se le ragazze si ribellano le modalità diventano sempre più feroci; una ragazza «l’hanno riempita di tagli, le hanno messo dentro tutto il sale nei tagli per farla soffrire. Agonia».

Il quadro del drammatico fenomeno della tratta, per cui collaborano organizzazioni criminali italiane e straniere, viene completato da numerosi complici. I clienti, che vanno a formare la domanda che la criminalità va a soddisfare, le politiche di rimpatrio previste per le ragazze, in quanto clandestine irregolari, le lacune e i limiti della legislazione, la corruzione delle istituzioni nigeriane.

Quello di Liberazione e Speranza è un lavoro duro e complicato. Nessuna associazione di questo genere è abbastanza potente da spaventare le organizzazioni criminali: tolta una ragazza dalla strada ne arriva subito un’altra, arrestata una madame ne mettono un’altra. «Però non voglio dire che questo lavoro è inutile – con un misto tra amarezza e speranza, L. sorride –, noi cerchiamo di dare alle ragazze gli strumenti per tentare una vita diversa. Se anche una sola ce la fa, per noi è un successo. Perché ogni persona secondo noi ha diritto ad avere la propria vita, la propria libertà, la propria dignità, anche fosse solo una che ce la fa grazie al nostro aiuto per me si potrebbe andare avanti sempre. Negli ultimi mesi abbiamo fatto tantissime uscite e ne è arrivata solo una, ma quella è arrivata. E quella donna riuscirà a cambiare la sua vita, quella donna denuncerà l’organizzazione criminale, combatterà per riprendersi la sua vita e noi saremo in prima linea con lei e questo secondo me è sufficiente».

Alessandro Buscaglia e Giulia Rodari

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