Le organizzazioni criminali tra Piemonte e Lombardia

Venerdì 4 maggio, in occasione del primo dei due incontri dal tema “Legalità e Regole”, parte del percorso della Scuola di Politica del Centro Menotti, il Coordinamento provinciale di Libera Vco e il Presidio Giorgio Ambrosoli hanno organizzato l’incontro intitolato “Le organizzazioni criminali tra Piemonte e Lombardia: colonizzazione e contrasto”. Ospiti sono Marco Nebiolo, giornalista di Narcomafie e noto per la realizzazione del dossier che la rivista ha dedicato all’operazione Minotauro, e Mario Portanova, giornalista de Il Fatto Quotidiano e autore del libro “Mafia a Milano”. Ai due ospiti viene chiesto di delineare le tappe fondamentali attraverso cui la mafia, nelle sue quattro diverse declinazioni, ha preso piede nelle “regioni non tradizionali”.

Il caso del Piemonte
di Irene Pipicelli
«In realtà la mafia nelle regioni del nord è attestata da almeno cinquant’anni, che cominciano ad essere una tradizione – inizia Nebiolo -, infatti dopo la prima metà del secolo scorso la mafia si era ormai strutturata in modo da rendere ontologicamente necessaria una sua espansione. Necessitava – spiega – di nuovo territorio per ampliare i propri mercati e per placare le violente lotte interne che si erano scatenate in quegli anni».
Quest’espansione avvenne, com’era naturale, inizialmente verso il ricco e vicino nord Italia, ma che, in linea teorica e non solo, non conosce limite.
Questo in breve permise alla mafia di infiltrarsi in settori ancora più redditizi, come l’imprenditoria, e di avere accesso all’economia. Da qui iniziò una dicotomia che diventò sempre più caratterizzante: la mafia cominciò a fare gli affari più grossi grazie ad azioni lecite.
Chi erano (e sono) però questi mafiosi? Non certo i molto pittoreschi uomini con coppola e lupara. «Ma nemmeno i tanto citati colletti bianchi! – puntualizza Nebiolo – Gli uomini della mafia sono per lo più piccoli e medi imprenditori, solitamente poco acculturati che parlano il dialetto stretto, ma in grado di esercitare anche qui al nord un controllo del territorio a dir poco straordinario». Infatti nove sono le locali (unità operativa della ‘ndrangheta composta da almeno 49 affiliati più un capolocale, ndr) individuate dall’operazione Minotauro nella sola provincia torinese.
«Certo non si può paragonare la periferia Torinese a S. Luca (cittadina della Calabria, centro fondamentale per l’ndrangheta, ndr), ma non perché la mafia qui sia meno violenta o pericolosa». Infatti sono stati rilevati tutti i reati classici della mafia, dall’usura allo spaccio di droga, all’estorsione. Inoltre vi è il grande guadagno attraverso cui la mafia instaura una concorrenza scorretta e, grazie ai suoi ingenti capitali di base, taglia fuori o fagocita quelle imprese che, proprio perché sane, non possono competere coi prezzi della mafia.
Tra l’altro, ricorda Nebiolo, il Piemonte in particolare “vanta” alcuni inquietanti primati, come la prima eclatante uccisione di un procuratore al di fuori delle “regioni tradizionali”, (Bruno Caccia, Torino 1983) e il primo consiglio comunale sciolto per mafia (Bardonecchia, 1995). «Già nel 2008 la relazione della Commissione Parlamentare Antimafia prevedeva una sezione dedicata interamente al Piemonte in cui si denunciava un grave problema di colonizzazione e infiltrazione, in special modo nell’edilizia. Queste dichiarazioni vennero allora considerate scandalose o catastrofiche, il nord infatti veniva considerato “culturalmente immune” alla mafia». In realtà è ormai appurato che il pensiero mafioso dilaga, infettando tutti i “settori” della cosa pubblica.
Grazie alla recente operazione Minotauro, che prese le mosse nel 2007 dalle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli e conclusasi a giugno dello scorso anno, sono stati evidenziati in modo inequivocabile i collegamenti tra mafia e politica; moltissimi sono gli indagati coinvolti nell’inchiesta. Ma, se i risultati del processo, iniziato qualche settimana fa, seguiranno la tendenza delle inchieste precedenti, ben pochi saranno i condannati con l’aggravante di associazione mafiosa. «È il risultato della superficialità, seppur molte volte in buona fede, di chi ancora oggi (anche tra giudici, politici e forze dell’ordine) è restio a parlare di infiltrazione mafiosa al nord, che certo non giova», conclude Nebiolo.
Ad ogni modo, sebbene emerga un quadro già inquietante, si insinua il dubbio che questo non sia altro che la punta dell’iceberg, le inchieste sono un primo passo verso la consapevolezza e la riappropriazione del territorio che deve avvenire, in modo capillare, da parte di quei cittadini onesti recuperando i famosi anticorpi culturali. In particolare in questo momento di crisi, quando la mafia prospera in seno alle difficoltà e a spesa del sistema sano, la società civile in toto deve farsi forte dei risultati ottenuti dai processi per uscire dall’insidiosa Zona Grigia, superficiale e connivente, e dare vita, nel quotidiano, ad esempi di Legalità e Onestà.

Il caso della Lombardia
di Alice Baroni
«Loro, i magistrati, possono tirare via qualche pesce ma allo stagno dobbiamo stare attenti noi». Queste le parole con cui Mario Portanova si rivolge al pubblico, perché la mafia è una questione di tutti. Un incontro ricco di novità spaventose che apre gli occhi sulle numerose commissioni antimafia lombarde che tentano, con il loro impegno quotidiano, di scovare la colonizzazione mafiosa al nord.
Effettivamente ci sono riuscite. Le molteplici operazioni ne sono la prova lampante. Sedici locali di ’ndrangheta, centosessanta persone imputate: ecco il risultato della recente operazione Infinito che smentisce il luogo comune sulla contenuta presenza di mafia in Lombardia grazie ad anticorpi culturali radicati nella mentalità dei settentrionali. È proprio tramite la discussione di luoghi comuni riguardanti la criminalità organizzata che Portanova procede affermando che la mafia esiste in Lombardia ed è radicata fin dagli anni ’50. Eppure molte personalità politiche insospettabili ignorano e negano il fenomeno: ingenuità o falsa disinformazione?
La famiglia Zagari è la prima appartenente alla ’ndrangheta che si spostò dalla Calabria e insinuò le sue radici in Lombardia negli anni ’50 seguita, a breve, dall’insediamento di Cosa nostra dalla Sicilia. Ma quali i fenomeni che portarono poi a considerare, da parte dei mafiosi, la Lombardia una vera e propria provincia calabrese? Le ondate migratorie dal sud che vanno a creare comunità di calabresi a sostegno delle famiglie mafiose al nord e i soggiorni obbligati per i malavitosi scarcerati in piccoli paesi del settentrione, dove si pensa non abbiamo la possibilità di delinquere nuovamente, sono state essenziali per un ingrossamento numerico dell’organizzazione e un salto di qualità. Una nuova modalità quella degli anni ’60 che è stata capace di soddisfare interessi malavitosi attraverso numerosi sequestri di persona e conseguenti ingenti riscatti, a quei tempi nemmeno associati ad azioni ‘ndranghetiste. Il consistente traffico di droga della fine degli anni ’70 portò infine alla convivenza di Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, Sacra Corona Unita (criminalità pugliese) e al coinvolgimento di tremila persone grazie alle operazioni dei primi anni ’90. Ben quattro tipi di mafia, quattro provenienze diverse, molteplici interessi ma un’unica collaborazione che si esprime in una pax mafiosa regnante in un’unica regione. Una rete complicata, in continuo movimento ed evoluzione che cambia il suo volto infame nel tempo perché, afferma Portanova, «queste cosche fanno economia lecita e crimine allo stesso tempo». Un primo miglioramento degli anni ’90 delle indagini con il debutto di filmati ed intercettazione ha rivelato successivamente un calo poiché «la criminalità organizzata ha spinto l’acceleratore nelle attività lecite», secondo il giornalista, più difficili da rintracciare. Le direzioni investigative antimafia hanno però ottenuto importanti risultati negli ultimi anni nonostante «sia molto più facile condannare la mafia criminale degli anni ’90 che quella economica di oggi». Queste ultime parole di Portanova sottolineano un inserimento mafioso in punta di piedi nei sotterranei della città che costruisce una fognatura inquinando i beni comuni: il lavoro, il territorio, l’ambiente e la politica. Ecco perché la questione riguarda tutti noi cittadini a cui vengono sottratte importanti opportunità che ci spettano poiché nostri diritti, diritti che dovrebbero essere rispettati a cielo aperto ma vengono invece gestiti dal putridume nascosto delle fogne. Queste sono apparentemente utili perché eliminano la spazzatura ed il superfluo dalla superficie ma lo mantengono latente sotto il suolo, una base malsana su cui ogni giorno poggiamo i nostri piedi e con cui bisogna fare i conti.
La responsabilità è di ognuno di noi perché, come esordisce Portanova, «il vero problema è una gigantesca Zona Grigia indifferente che c’è in politica così come negli affari».

Qui, l’intervista a Marco Nebiolo e Mario Portanova. In seguito alle recenti operazioni antimafia e un’indubbia maggiore presa di coscienza da parte della società civile, quale vi immaginate sarà il futuro delle organizzazioni mafiose nei vostri rispettivi territori?

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