Dossier

Il 20 dicembre 2019, dopo mesi di indagini la DDA di Torino fa la sua mossa: scatta l’operazione Fenice.
Sono passati pochi mesi da un’altra importante operazione, denominata Carminius, che ha fotografato il potere capillare esercitato da una ‘ndrina su Carmagnola. Le due inchieste, come vedremo, sono strettamente connesse.
Centocinquanta militari della Guardia di Finanza eseguono l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal GIP (Giudice per le Indagini Preliminari) Giulio Corato.
A fine giornata si contano otto arresti e oltre duecento beni sequestrati, per un valore di svariati milioni di euro. Tra i nomi spicca quello di Roberto Rosso, assessore regionale piemontese.
Oltre a quello di Onofrio Garcea, vecchia conoscenza degli inquirenti per via dei numerosi precedenti penali e di polizia.

Guarda il video racconto della requisitoria del processo

La scelta di lavorare sulle mafie nigeriane è stata dettata da fatti recenti di attualità (arresti di presunti affiliati che hanno riguardato anche il Piemonte), ma anche dalla volontà di approfondire un tema complesso, provando a rifuggire da semplificazioni, luoghi comuni, visioni sbagliate che collegano il tema della criminalità organizzata straniera a quello dell’immigrazione con troppa disinvoltura e
facile strumentalizzazione.
Il lavoro ha preso spunto – e si è sviluppato – su carte della magistratura. Indagini e operazioni condotte a Torino, nel 2005 e nel 2012, su gruppi criminali operanti in città, in collegamento con altri centri italiani, accusati di operare sul territorio come una vera e propria mafia.
Abbiamo scelto di non indicare i nomi dei soggetti colpiti da queste indagine, ma di
analizzare il fenomeno partendo da episodi, fatti criminali e dinamiche contenute nei documenti giudiziari analizzati.

Pochi titoli di giornale, relegati alle pagine locali.
Tiepide o nulle le reazioni della politica o della società civile. L’Operazione Barbarossa, che ha sgominato una cellula di ‘ndrangheta operante nell’Astigiano, ha catalizzato l’attenzione per poco tempo, e forse non si è compresa la pericolosità delle dinamiche su cui ha fatto luce.
Dal traffico di stupefacenti alla detenzione di armi, passando dalle estorsioni alla minaccia, per arrivare a tessere legami pericolosi con l’imprenditoria e gestire le squadre di calcio locale.
Questa ordinanza ci racconta quanto la ‘ndrangheta sia pericolosa, certo, ma anche quanto la sua espansione sia direttamente collegata alla capacità di legarsi al territorio in cui opera.
Per tutte queste ragioni – che svilupperemo nel corso del dossier – abbiamo deciso di leggere ed analizzare le 490 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, redatte dalla DDA di Torino, denominata “Barbarossa”.

Le ipotesi di reato colpiscono pubblici ufficiali facenti parte del General Contractor (responsabile della realizzazione dell’opera) e imprenditori che avevano vinto appalti e
commesse per milioni di euro.
Gli inquirenti ipotizzano reati che vanno dalla corruzione alla concussione fino ad arrivare alla turbativa d’asta.
Contestazioni molto gravi riscontrate negli appalti di un’opera tanto discussa, costosa e finanziata da denaro pubblico.
Sul banco ci sono centinaia di milioni di euro, ma le carte sono truccate e a manipolare
gli esiti del gioco sono gli stessi controllori.
Per tutte queste ragioni abbiamo deciso di analizzare questa ordinanza di custodia cautelare e farne un caso studio.

La gestione del procedimento e del contratto ipotizzati nella storia illustata non sono la prassi di una stazione appaltante pubblica, ma intenzionalmente l’unione di tutti gli errori, voluti o causati da incapacità/inesperienza, che possono essere commessi durante lo svolgimento delle varie attività.
Si presume e si spera che la pubblica amministrazione, agendo per il bene comune, operi sempre nel rispetto della legalità e della trasparenza.
In ogni caso, noi siamo convinti, supportati dalle esperienze personali, che in ogni ufficio ci sia sempre una sacca di “precaria” resistenza, una “Luce” che vigila e indirizza sulla retta via… se lo vogliamo e agiamo di conseguenza, possiamo non essere tutti burattini!

 

Ogni riferimento a persone, imprese e comuni esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Ci si dimentica spesso del VCO, incuneato tra il Canton Vallese di lingua tedesca e il Canton Ticino di lingua italiana. Eppure, questa provincia di provincia è un ottimo modo di raccontare il nostro Paese, che salvo qualche sparuta metropoli altro non è che un tetris di municipalità di media dimensione e periferie. Ecco perchè si è deciso di pubblicare un dossier, a cura di Lorenzo Bologna e con la collaborazione di Maria Josè Fava e Davide Pecorelli, per ricostruire le infiltrazioni delle mafie negli anni ’80 e ’90 nella zona del VCO. A trent’anni dai fatti giudiziari, questo lavoro di approfondimento vuole contribuire al dibattito pubblico sulla presenza delle organizzazioni mafiose nella provincia verbenese.