Quando la festa diventa Memoria

Da sinistra Carlo Squizzi, presidente di "Alternativa A" e don Luigi Ciotti, presidente di Libera
Da sinistra Carlo Squizzi, presidente di “Alternativa A” e don Luigi Ciotti, presidente di Libera

di Valentina Aiello

La sala di “Casa Don Gianni” di Domodossola è gremita di gente nel pomeriggio di questo primo giugno. Infatti, già da alcuni giorni tutta la realtà di volontariato è in festa: il gruppo di associazioni legate a “Casa Don Gianni” compie vent’anni. In occasione di questo importante anniversario, l’associazione “Alternativa A” ricorda con «giorni di festa che diventano anche giorni di memoria» due persone speciali, fondamentali per la nascita di quest’esperienza: don Gianni Luchessa e don Antonio Visco. E allora sono stati messi in campo feste di paese, spettacoli teatrali, tornei di calcio, e ogni tipo di attività che crei aggregazione e conoscenze fra i partecipanti.

Con questo spirito di condivisione e partecipazione, il numerosissimo pubblico aspetta l’intervento di Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, previsto per il pomeriggio di domenica 1 giugno. Introducendo l’ospite, il presidente di “Alternativa A” Carlo Squizzi ricorda che «il sogno di Don Antonio era proprio quello di ospitare Don Ciotti qui, a Casa Don Gianni», dove è nata una realtà associativa di volontariato molto umile, al servizio dell’altro, una solidarietà che diventa sempre più necessaria, soprattutto di questi tempi. Oggi però non è venuto ”solo” Luigi Ciotti a parlare, come conferma lui stesso: «oggi è venuto a parlare un noi», una rappresentanza di oltre 1500 associazioni, di tanti volti, di tante persone che, subito dopo le (tristemente) famose stragi del 1992, hanno costituito un gruppo sempre più grande, chiamato Libera.

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Ma cosa è successo esattamente alla gente, in quel famoso 1992? Per la prima volta, è nata la necessità di prendere coscienza di un fatto, un fatto che era ormai conosciuto da molti, ma non abbastanza perché potesse essere affrontato dai più. C’è stato bisogno di comprendere che la mafia, la corruzione, l’illegalità e la violenza non sono entità che infliggono solo “chi se le va a cercare” o chi si trova “nel punto sbagliato al momento sbagliato”, ma costituiscono un cancro che logora, inevitabilmente, la vita di tutti i membri di una società. C’è stato bisogno di guardare dentro la propria coscienza, anche culturale, e chiedersi perché il nostro Paese sente parlare da 400 anni di camorra, da 200 di Cosa Nostra e da 150 di ‘ndrangheta.

Sono questi dubbi, questo coraggio di scavarci dentro, che ci permettono di applicare una resistenza, una lotta per il cambiamento. Una lotta che rispecchia la stessa missione che si sono posti, circa settant’anni fa, i nostri partigiani: è in nome loro che abbiamo il dovere di mantenere gli occhi aperti e soprattutto di non voltarci dall’altra parte. La libertà che il loro sacrificio ci ha donato non deve essere altro che lo strumento di cui ci avvaliamo per permettere ad altri di conquistare la propria, di libertà.

«Sì, perché chi è povero, non è libero» afferma Ciotti. E in Italia sono 9 milioni le persone che vivono in povertà relativa, e 5 milioni quelle che vivono in povertà assoluta. E chi è povero ricorre spesso, portato dalla disperazione, all’usura, un’altra forma di violenza spietata. Sì, perché chi non sa né leggere né scrivere, non è libero. E in Italia sono 6 milioni le persone che compongono la parte analfabeta della nostra società. Sì, perché un Paese in cui non ci sia una sola strage di cui si sappia tutta la verità, non è libero. Sì, perché un Paese in cui il 75% dei familiari delle vittime innocenti di mafia non sa nulla dell’omicidio del proprio caro, non è libero. Sì, perché un sistema di leggi che permette al 35% degli imputati di cavarsela con una prescrizione, taglia di netto il diritto più grande: la giustizia.

E allora c’è davvero bisogno di una svolta, di un riscatto sociale che permetta a valori come l’onestà e la legalità di “ritornare normali”, il cui rispetto sia richiesto, ugualmente, da parte di tutti. C’è bisogno, dunque, di una resistenza che, come sempre, costituisca anche l’”esistenza” di ognuno di noi.

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